Piana degli Albanesi. Repubblica sì, repubblica no

Nel quadro del movimento “Non si parte”, anche a Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, ci furono delle manifestazioni anti-militariste in cui intervennero molti dei circa 2000 giovani richiamati alle armi. Piana degli Albanesi – o come precedentemente chiamata, Piana dei Greci – ospitava una grande colonia di albanesi, arrivati in Sicilia verso la fine del XV secolo, che avevano mantenuto la propria lingua, i propri costumi, la religione di rito bizantino-greco. Al censimento del 1936 il comune contava circa 7.100 abitanti, per la maggior parte contadini. Nella comunità il fascismo non era riuscito a radicarsi, e persisteva la tradizione di lotta risalente al socialista Nicola Barbato, nato a Piana nel 1856: infatti, durante il ventennio, i contadini continuarono a percorrere le vie del paese portando all’occhiello, a mo’ di sfida, il garofano rosso.

Il movimento di rivolta contro la chiamata alle armi iniziò il 18 dicembre 1944, con una manifestazione organizzata da un giovane iscritto al Partito comunista, Giacomo Petrotta, cui parteciparono circa 500 giovani. L’allora sindaco Baldassarre Di Fiore, pure comunista, ne diede comunicazione al Prefetto di Palermo con una breve nota, concludendo che “la situazione è tranquilla e non si temono disordini”. Infatti la vita politica era tornata a svolgersi liberamente, con la riapparizione dei partiti e con l’elezione del sindaco, in base alle disposizioni emanate l’11 gennaio 1944 dal tenente colonnello Charles Poletti, capo degli affari civili della Sicilia,

Si scrive e si ritiene comunemente che in quei giorni venne proclamata una repubblica. I fatti, ricostruiti accuratamente da Francesco Petrotta (solo omonimo di Giacomo Petrotta) nel suo libro “La repubblica contadina di Piana degli Albanesi” del 2006, forniscono una ricostruzione diversa.

Il giorno di Natale del 1944, Petrotta si dimise dal Partito comunista e con altri giovani costituì il “Circolo dell’organizzazione della gioventù”, definito politico e ricreativo. Ne fu steso un programma tutt’altro che rivoluzionario, dato che si parlava della “nostra patria vilipesa e sanguinante” e come scopi dell’organizzazione si proponevano “l’educazione morale e culturale degli associati e l’assistenza reciproca”, “la collaborazione fattiva con l’amministrazione comunale intesa a tutelare i diritti e gli interessi del popolo”, e che “ai posti di responsabilità vengano assegnate persone… di provata onestà e capacità”. Il primo compito che i giovani si proposero fu una colletta di generi alimentari, per aiutare le famiglie più bisognose. Il sindaco mise a disposizione un locale del comune per immagazzinare le derrate raccolte. Per quanto magra, la raccolta, che comprendeva 340 chili di farina, una notte venne rubata. I giovani ne incolparono l’appuntato dei carabinieri Carmelo Bevacqua, e penetrarono a forza nella sua casa, minacciando con la pistola la moglie e la bambina. Non trovarono nulla perché – a quanto pare – la refurtiva era già partita nella notte verso Palermo. La situazione era diventata comunque molto tesa, e Petrotta fece un primo comizio subito dopo l’irruzione nella casa del carabiniere e un secondo comizio il giorno dopo, 31 dicembre, in piazza, cui parteciparono circa 2000 persone, incluso il vescovo con i suoi prelati. Si sostenne che in quella occasione Petrotta aveva proclamato la repubblica di Piana degli Albanesi. Il testo del telegramma spedito dal capitano dei carabinieri del luogo al Ministero degli Interni diceva invece che il Petrotta “radunava duemila persone scopo comizio… incitandoli particolarmente disobbedienza leggi e invitando precettati non presentarsi chiamata armi… Nessun incidente. Ordine pubblico ristabilitosi”.

Solo più tardi, l’8 gennaio 1945, un rapporto del maresciallo Lucio Portera riportava che il Petrotta “trattò” il tema della repubblica di Piana degli Albanesi, ma non che la proclamò. Tale rapporto accompagnava la denuncia di Giacomo Petrotta e altri quattro giovani per reati molto pesanti: violenza privata, minaccia, violenza e minaccia a pubblico ufficiale, istigazione a disobbedienza alle leggi, associazione a delinquere, porto abusivo di pistola. Un secondo rapporto del 10 febbraio, sempre a firma di Portera, aggiungeva il delitto di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello stato. Ma si trattava evidentemente di una descrizione forzata dei fatti, presentata da un personaggio molto discusso per i suoi rapporti con agrari e mafiosi, il quale forse voleva convincere le autorità a scagliarsi con decisione contro un movimento giovanile armato. Comunque l’ultima accusa decadde quasi subito, ma i giovani arrestati vennero sottoposti ad atti di violenza da parte delle forze dell’ordine. In particolare il Petrotta venne sottoposto alla tortura della “cassetta” perché rivelasse il nascondiglio delle armi a loro disposizione. Con il sistema della “cassetta”, “l’interrogato veniva posto supino su una cassa delle dimensioni di un metro per ottanta; le mani e i piedi venivano legati fortemente con sottili corde metalliche ai rispettivi lati della cassetta. Lo sfortunato veniva cosparso di acqua e sale e frustato con un nerbo di bue e con fili d’acciaio ad alta tensione… oppure gli si riempiva la pancia di acqua e sale attraverso un imbuto infilato in bocca”. Dopo ore di questo trattamento Petrotta ammise le sue responsabilità e invitò i giovani a consegnare le armi.

Conclude lo storico Francesco Petrotta: “In verità, per tutto il periodo della rivolta antimilitarista né Petrotta né gli altri giovani ebbero mai nelle mani il potere politico, amministrativo e militare, e non venne prodotto alcun atto di governo. Il sindaco comunista Baldassarre di Fiore non fu mai destituito né esautorato nei suoi compiti istituzionali. Anzi la sede municipale fu sempre preclusa ai giovani rivoltosi. La caserma dei carabinieri non fu mai assaltata… e i militari per tutto il periodo dell’agitazione giovanile svolsero regolarmente la loro attività di servizio d’ordine”. E con queste parole sembra definitivamente tramontato il mito di quella repubblica contadina.

Nella storia di Piana degli Albanesi in quegli anni c’è anche un capitolo poco chiaro, con testimonianze incerte su date e fatti, circa i rapporti fra Giacomo Petrotta e il bandito Salvatore Giuliano, che pochi anni dopo compirà l’eccidio di Portella delle Ginestre, appunto nel territorio del comune di Piana. Ma questa è un’altra storia.