Ordine pubblico e giustizia

Sulle montagne, intorno alle brigate partigiane, si forma talvolta una nebulosa di uomini armati, pronti a taglieggiare e derubare gli abitanti, creando una situazione estremamente pericolosa per i partigiani, i quali avevano assoluto bisogno dell’appoggio delle popolazioni. E’ necessario stroncare i fenomeni di banditismo e a volte l’unica misura possibile è la pena di morte, come succede in valle Stura, nel Cuneese, dove due partigiani riconosciuti colpevoli di furto e diserzione vengono giustiziati. La stessa pena è inflitta a Riccardo Fedel, il comandante partigiano di Corniolo, nel Forlivese, che nei contatti con gli Alleati si era spacciato per comandante in capo dei partigiani emiliani e si era impadronito di una grossa somma di denaro. La pena di morte si applica nell’ambito delle vicende di guerra, dove il giudice competente è il tribunale partigiano, mentre “per tutti i reati comuni è abolita la pena di morte”, come stabilisce la norma promulgata sia in Carnia che nel Cuneese, anticipando l’articolo 27 della Costituzione italiana.

Per l’amministrazione della giustizia civile nelle zone libere si formano dei tribunali: in Ossola viene nominato un “magistrato straordinario”, nella persona dell’illustre avvocato Ezio Vigorelli, che sarà poi ministro della Repubblica italiana. A Montefiorino viene istituito un tribunale composto da un presidente, un pubblico ministero e due giudici, mentre difensore d’ufficio degli imputati è il prete. L’esempio più avanzato è costituito dalla Carnia, dove il tribunale è composto da rappresentanti del comando partigiano, della giunta di governo e delle organizzazioni di massa. La giustizia è gratuita, le udienze sono pubbliche e l’imputato può scegliere il proprio difensore. A Varzi il tribunale è composto dal sindaco, dal prete, dal commissario politico dell’unità partigiana più vicina e da cittadini di riconosciuto prestigio morale. In Valsesia esiste ancora un pretore di nomina regia; gli viene affiancato un commissario giudiziario, l’avvocato Zacquini, con funzioni di controllo e le sentenze sono emesse in nome non del re, ma del CLN.

In Val Maira un caso grave di delinquenza comune, con due omicidi, viene affidato alla magistratura ordinaria; per le controversie locali provvedono i comandanti partigiani, i quali si ispirano non solo a criteri di equità ma anche alle consuetudini che vigono da secoli fra le genti di quelle montagne. In Valle Stura per le controversie civili giudica un tribunale composto da due partigiani e un civile di buona fama del comune dove è avvenuto il fatto: un giovane viene condannato a risarcire i danni per aver sedotto una ragazza che aveva dato alla luce un bambino nato morto. A Castelmagno è il parroco stesso che invita il comandante partigiano a intervenire per dirimere una lite familiare.

In alcune situazioni si riesce perfino ad apprestare un carcere, come in Ossola: a Druogno, nei locali di una preesistente colonia montana, i prigionieri – in gran parte fascisti – sono trattati in maniera umana e vitto e alloggio sono migliori di quelli dei partigiani combattenti. Nel Cuneese, il rigore morale degli uomini di Giustizia e Libertà porta a un regolamento di polizia e procedura giudiziaria improntato al più severo rispetto della persona umana: “In nessun caso le persone arrestate o fatte prigioniere dovranno essere sottoposte a violenze, maltrattamenti, ingiurie o sevizie… Debbono evitarsi tutte quelle iniziative che possono offendere il pudore, la sensibilità e la dignità sia di chi si trova a dover assistere, sia del colpevole stesso”. Perché la violenza e la tortura degradano anzitutto chi le pratica.

Come giudizio definitivo, va riconosciuto che coloro che dovettero assumersi compiti giuridici per i quali non erano preparati seppero individuare delle garanzie fondamentali e seguire dei principi di rispetto dei diritti umani, che li fecero accettare e apprezzare dalle popolazioni interessate, e che ancor oggi possiamo valutare positivamente.