Montefiorino è un comune delle montagne modenesi, in un comprensorio che include le valli Dolo, Dragone e Secchia. Aveva 4500 abitanti, in base al censimento del 1936. Nel giugno del 1944 divenne la capitale di un territorio libero che includeva anche i comuni di Frassinoro, Ligonchio, Piandelagotti, Prignano sulla Secchia, Palagano, Polinago, in territorio modenese; Baiso, Ceredolo, Toano, Villa Minozzo in territorio reggiano; cioè un’area di circa 1.200 chilometri quadrati con 50.000 abitanti. Si tratta di un territorio fertile, con un’agricoltura molto sviluppata che produce soprattutto grano. Vi è anche un notevole patrimonio zootecnico e una fiorente industria casearia. Le comunicazioni contano su una fitta rete di strade, mentre l’energia è fornita da due centrali elettriche della zona.
Allo scoccare dell’armistizio, l’8 settembre 1943, gli allievi ufficiali della Scuola Militare di Modena si trovavano al campo estivo su quelle montagne; in mancanza di ordini, i militari si disperdono abbandonando le armi, che vengono subito recuperate dalla popolazione.
Nella zona operavano la I Divisione Garibaldi al comando di Mario Ricci, “Armando”, con Osvaldo Poppi, “Davide” come commissario politico. Una delle brigate di questa formazione era comandata da una giovane donna, Norma Barbolini, che alla fine della guerra ebbe il grado di capitano dell’esercito italiano.
Una formazione cattolica aveva sede a Fontanaluccia, frazione di Frassinoro, ed era comandata da Ermanno Gorrieri, che dopo la guerra sarà giornalista, politico della Democrazia Cristiana e sull’esperienza di Montefiorino scriverà un libro. Nella zona di Monchio operava poi una formazione di Giustizia e Libertà al comando dello studente universitario Mario Allegretti, ucciso in combattimento con i tedeschi. Vi era poi il “battaglione sovietico d’assalto”, composto da circa 200 prigionieri russi fuggiti dai campi di prigionia italiani, sotto il comando del russo Vladimir Pereladov, di Mosca. Un’altra piccola unità era composta da disertori dell’esercito germanico, mentre un altro gruppo di combattenti comprendeva jugoslavi, francesi, belgi, polacchi, cecoslovacchi, sudafricani e altri, fuggiti dai campi di internamento in Italia. Nell’estate del 1944 le formazioni partigiane avevano raggiunto la cifra di 5.000 uomini.
Dopo la strage di Monchio, dove i tedeschi uccisero 136 persone e distrussero 150 case, i fascisti avevano lasciato a Montefiorino un presidio di un centinaio di uomini della Guardia Nazionale Repubblicana, installati all’interno della poderosa Rocca medievale. Il territorio, a ridosso della linea di difesa tedesca, aveva un valore strategico altissimo, e di ciò si resero conto anche i comandi alleati, i quali non fecero mancare il loro appoggio alle formazioni partigiane, con lanci quasi giornalieri di armi leggere, viveri e abbigliamento.
All’inizio dell’estate parte una grande offensiva partigiana, con un’azione concordata e tempestiva, che investe dapprima i ponti sulle strade di accesso alla zona per impedire l’uso dei mezzi motorizzati, isolando i presidi nazifascisti sulle montagne. Nei primi giorni di giugno i partigiani liberano tutti i paesi intorno, ma Montefiorino con la sua Rocca continua a resistere. Alle brigate garibaldine condotte da “Armando” si unisce il battaglione sovietico d’assalto e insieme hanno ragione della resistenza fascista. I nazifascisti perdono oltre 1.300 uomini, un gran numero di automezzi, armi e munizioni, e quattro autoblindo. Montefiorino è libera e il 18 giugno il comando partigiano si installa nella Rocca.
Molto presto si manifestano i primi contrasti fra le forze comuniste – numericamente soverchianti – e i gruppi democristiani. L’intransigenza dei garibaldini era dovuta al carattere violento e spietato imposto alla lotta dai fascisti e dai nazisti, oltre che alle necessità oggettive – a volte crudeli – della guerra partigiana. I democristiani tendevano invece a “umanizzare” la lotta, evitando gli spargimenti di sangue. I contrasti dovevano continuare e anzi accentuarsi con il tempo.
Il primo organismo civile, insediato il 13 di giugno, fu il Comitato comunale di Toano, che non venne eletto, ma nominato con un accordo fra il comando partigiano e gli esponenti locali. Il Comitato era composto dai rappresentanti delle varie frazioni del comune; non era del tutto autonomo, in quanto gli atti dovevano essere controfirmati dal Comando partigiano, ma era pur sempre una prima separazione fra comando militare e amministrazione civile.
Pochi giorni dopo, il 26 giugno, a Montefiorino si procede all’elezione del sindaco, dopo un comizio tenuto da Davide, il quale propone alla carica Teofilo Fontana, un vecchio antifascista. La proposta viene approvata per acclamazione. Per eleggere i rappresentanti delle frazioni viene richiesta la collaborazione dei parroci. Non esistono documenti sulle elezioni nelle frazioni, ma pare che siano state radunate le assemblee dei capi famiglia e che i nomi proposti dal Comando partigiano siano stati approvati per alzata di mano o per acclamazione. Lo stesso succede negli altri comuni.
Non ci fu però la formazione di un unico organo amministrativo civile che esercitasse la propria autorità su tutta la zona liberata. Ogni comune agì per conto proprio, con amministrazioni che avevano un certo grado di autonomia, ma non comprendevano tutte le forze politiche impegnate nella Resistenza, e soprattutto non erano coordinate fra loro.
Come nelle altre zone libere, la prima preoccupazione è per i rifornimenti e il controllo delle derrate alimentari: la giunta di Montefiorino organizza l’ammasso del grano a favore della popolazione e ne fissa il prezzo a 700 lire al quintale (1.700 lire a Toano), autorizzando i produttori a trattenerne due quintali, oltre a un quintale di granturco. Il latte viene fatto affluire al caseificio di Vitriola, e il prezzo è stabilito in 350 lire al quintale; alla popolazione si riuscirà a distribuire 300 grammi di burro al mese per persona. Oltre al burro verranno successivamente distribuiti 100 grammi di olio, 500 di zucchero, 500 di sale (allora preziosissimo), 200 di marmellata e una certa quantità di pasta e formaggio grana per ogni persona.
In vista della prossima trebbiatura, viene fatto il censimento delle trebbiatrici disponibili, che sono 13, di cui 3 a petrolio o nafta, per le quali si provvede a reperire il carburante. I partigiani disarmati vengono organizzati in squadre di volontari del lavoro che aiutano i contadini a falciare i prati e a trebbiare, oltre ad eseguire lavori per riattare le strade. La Giunta fissa il prezzo del grano, il prezzo della trebbiatura e la tariffa della manodopera specializzata: ogni trebbiatore avrà 50 lire al giorno più il vitto. “La Giunta stima inoltre necessario che ogni produttore procuri di stipulare regolare contratto di assicurazione del personale contro gli infortuni”: è il primo provvedimento di diritto del lavoro delle zone libere partigiane.
Vengono inoltre fissati i prezzi degli altri cereali, del fieno, della paglia e delle carni con relativo controllo della macellazione.
La distribuzione dei viveri e l’organizzazione della trebbiatura realizzano un importante risultato politico: il movimento partigiano riesce a costruire un rapporto positivo con i mezzadri e i contadini e rende manifesta la propria capacità di iniziativa in campo economico e sociale.
In materia fiscale, viene decisa la riapertura dell’esattoria e dell’Ufficio delle imposte di consumo. L’imposta sul bestiame viene fissata in lire 10 per ogni capo inferiore a un anno. Per le imposte di consumo, viene confermato il sistema in atto. La Giunta però si pone il problema di un sistema fiscale più equo, basato sul principio della progressività delle imposte, ma per il momento le giunte adottano il criterio proporzionale, temperato da provvedimenti speciali per i meno abbienti. Viene revocata l’esenzione fiscale alle famiglie numerose, tipicamente fascista, e si stabilisce di pagare dei sussidi alle famiglie di militari prigionieri, dispersi e internati, nonché alle famiglie bisognose.
L’azione di polizia per garantire l’ordine pubblico e reprimere le scorribande di pretesi combattenti che commettevano furti e rapine, era affidata a speciali gruppi partigiani. Per evitare i giudizi sommari presso i comandi, viene costituito un tribunale, con un presidente, un pubblico ministero e due giudici; il difensore è il prete. Si procede a formulare un progetto di codice che definisce i reati politici e comuni e fissa le pene. Purtroppo tale tribunale non riuscirà a entrare in funzione, per la brevità dell’esperienza democratica. Viene anche organizzato il carcere, presso la locale caserma dei carabinieri, dove sono detenuti prigionieri tedeschi e fascisti, spie e partigiani colpevoli di furti o rapine.
Nella zona di Fontanaluccia viene attrezzato un piccolo ospedale, diretto dal dottor Luigi De Toffoli, che dispone di qualche decina di letti e perfino di una sala operatoria. Le medicine provenivano da un paio di farmacie della zona e dagli aviolanci degli Alleati. L’ospedale curava gratuitamente sia le formazioni partigiane che la popolazione civile. Per i partigiani feriti vennero predisposti anche infermerie distaccate e convalescenziari.
Le unità partigiane riescono anche ad organizzare una sartoria e una calzoleria per fabbricare e riparare scarpe, che sono notoriamente uno dei punti deboli dei rifornimenti.
A Montefiorino si trovano numerosi veicoli, ma manca il carburante. Nella zona però passa una conduttura di metano, che viene captata e fornisce circa ottanta bombole al giorno. Un garage e un’officina di riparazioni assicurano la corretta manutenzione dei veicoli.
In tutta la zona liberata il lavoro era febbrile e l’atmosfera di gioiosa libertà si nutriva della consapevolezza di operare per la costruzione di qualche cosa di nuovo, per il mondo di domani.
La posizione di forza e la sicurezza della zona libera si dimostra anche all’esterno: infatti il generale nazista Messerle inoltra al comando partigiano la proposta di un “patto di non aggressione”, garantendo di non effettuare alcuna azione di rastrellamento se i partigiani si impegnavano a non ostacolare il passaggio delle truppe tedesche. La proposta fu respinta.
Quanto agli Alleati, essi erano grandemente interessati alla crescente possibilità di sabotaggi e attacchi alle vie di comunicazione tedesche; vennero paracadutati tre ufficiali inglesi, di cui uno restò nella zona. Si progettò anche il lancio di un grosso contingente del ricostituito esercito italiano: è la rinata divisione Nembo, che doveva partire da Brindisi per sostenere i partigiani e rafforzare la zona. Alla fine di luglio vennero infatti paracadutati sei radiotelegrafisti e un ufficiale, e l’arrivo della divisione era previsto per la notte del 2 agosto. Troppo tardi. Alla fine di luglio inizia infatti il grande rastrellamento tedesco.
E’ una vera battaglia manovrata: i tedeschi concentrano su Montefiorino tre divisioni con artiglieria, mortai e lanciafiamme, un reparto corazzato, nonché due battaglioni della Guardia nazionale repubblicana. Divisi su tre colonne il 30 luglio attaccano rispettivamente da nord, da Carpineti e Sassuolo, e da sud, da Piandelagotti. Una classica manovra a tenaglia che doveva serrarsi su Montefiorino e imprigionare le formazioni partigiane. La battaglia dura quattro giorni; a Monte Falò il battaglione sovietico infligge un duro colpo ai reparti provenienti da Sassuolo e li costringe a segnare il passo. A Villa Minozzo si combatte casa per casa finché il paese è praticamente distrutto. A Monchio la popolazione – memore della strage – combatte compatta con forche, fucili da caccia, falci, in un furioso corpo a corpo col nemico.
La missione inglese però rifiuta di distribuire ai partigiani le armi e le munizioni accantonate in attesa dell’arrivo dei paracadutisti della Nembo. I partigiani resistono valorosamente, ma alla scarsità dei mezzi segue ben presto l’esaurimento delle scorte. Solo allora si decide il ripiegamento. Sul terreno restano 250 partigiani morti e 70 feriti, ma i nazifascisti pagano un altissimo prezzo per la loro vittoria: le loro perdite infatti ammontano a circa 2.000 uomini. La popolazione civile fugge e molti partigiani si disperdono, ma il grosso, diviso in piccoli gruppi, riesce a rifugiarsi in Toscana. La tenaglia non si è richiusa, la preda è sfuggita. La rabbia nazifascista si scarica sui paesi: Montefiorino e la sua Rocca, Piandelagotti, Toano, Villa Minozzo vengono incendiati, i pochi civili rimasti vengono deportati al campo di concentramento di Fossoli, e poi in Germania.
Già poche settimane dopo le formazioni partigiane rinascono. E anche la Repubblica cova sotto le ceneri degli incendi. Infatti la relazione scritta dal sindaco Teofilo Fontana in data 1 novembre 1944 informa che l’attività dell’amministrazione democratica è ripresa solo una settimana dopo l’incendio della sede comunale. Si sono ripresi i contatti gli uffici provinciali repubblicani per ottenere l’assegnazione di generi alimentari e di sussidi. Per dare veste burocratica corretta ai rapporti con le autorità fasciste di Modena, viene nominato Commissario prefettizio un agricoltore di Casola, Domenico Bertolai, che da parte sua non era affatto entusiasta della carica, e ci volle una forte opera di convincimento per fargliela accettare. E il vecchio antifascista e partigiano Teofilo Fontana verrà confermato sindaco di Montefiorino alle prime libere elezioni amministrative, dopo la guerra.