Il periodo fra il 1943 e il 1945 nel Meridione è denso di avvenimenti che anche quando non assumono il carattere drammatico e tragico della scontro a fuoco e del massacro, segnano comunque una cesura con il passato. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia il 10 luglio 1943, la caduta del fascismo due settimane dopo, l’armistizio, la fuga del re Vittorio Emanuele da Roma e la creazione del Regno del Sud aprono un periodo di fermenti e di speranze. Scrive Rosario Villari: “Già nel 1943-44 la disponibilità delle masse contadine meridionali all’inserimento nella lotta per la trasformazione del paese e la loro forte pressione rivendicativa, che costituiva obiettivamente il terreno dell’incontro e del collegamento con i partiti democratici, erano evidenti per diversi segni. I quali erano, inevitabilmente, un intreccio di vecchio e di nuovo, di miti tradizionali e di aspirazioni nuove; ma erano pur sempre manifestazioni di distacco dal sistema, dall’ordine sociale e di valori fino allora rispettati”. Di fatto la politica agraria del fascismo si è risolta in un clamoroso fallimento, malgrado l’esaltazione demagogica della vita rurale e la promessa di rendere tutti piccoli proprietari.
Negli anni 40 la popolazione italiana ammontava a 42 milioni, di cui circa il 52% risultava contadina. Nel Meridione, la percentuale toccava il 59%: il regime fascista aveva bloccato l’emigrazione verso l’estero, che era stata la grande valvola di sfogo nei primi anni del XX secolo, e aveva anche reso difficile l’emigrazione interna verso le città, per quanto studi recenti abbiano dimostrato che furono centinaia di migliaia i contadini che vi si trasferirono.
Dopo le sanzioni imposte dalla Società delle Nazioni, la politica autarchica del regime, per raggiungere l’autosufficienza alimentare, aveva obbligato i contadini a coltivare a grano terreni che non erano adatti: per esempio, nella zona di Potenza i contadini dovettero tagliare i preziosi vitigni di Aglianico per coltivare grano con resa scarsa e quindi proventi molto ridotti. Inoltre i contadini dal 1936 dovevano consegnare i loro prodotti all’ammasso: se in un primo tempo i prezzi pagati dallo Stato erano stati decenti – fatte salve le ruberie dei gerarchi locali – con il procedere degli anni e la svalutazione il prezzo pagato dall’ammasso era diventato insufficiente e non copriva neppure le spese di produzione: nel 1944, il prezzo di costo del grano ammontava a circa 2.000 lire al quintale, mentre il Regno del Sud ne dava 900 per il grano tenero e 1.000 per quello duro, Anche gli altri cereali avevano un costo tre o quattro volte superiore a quello fissato dal governo.
La distribuzione delle terre poi era rimasta estremamente diseguale: in provincia di Matera, per esempio, nelle zone di pianura l’1,2% dei proprietari possedeva il 66% dei terreni, mentre il 93% dei proprietari disponeva di terre comprese fra 0,5 e 5 ettari. In collina e in montagna l’1,4% dei proprietari possedeva il 60% dei terreni, un altro 7,6% di proprietari, che si possono considerare medi, disponeva del 21% dei terreni mentre le piccole proprietà fino a 5 ettari spettavano al 90% dei proprietari. Esisteva quindi una grande frantumazione della piccola proprietà che non permetteva al contadino e alla sua famiglia di vivere su di essa. La grande massa contadina – in gran parte analfabeta o con una scolarizzazione minima – doveva sopravvivere mettendosi a disposizione delle grandi proprietà come braccianti, oppure con piccole attività artigianali che comunque non permettevano di uscire dalla più profonda miseria.
Né v’era possibilità di lavoro nell’industria, che nel Sud era stata in un primo tempo – all’unità d’Italia – “sacrificata all’egemonia settentrionale, riducendo il Mezzogiorno a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte”, come dice Gramsci. Di fatto, gli addetti all’industria nel Sud erano il 10% del totale nazionale, rispetto al 24% della popolazione, ed erano impiegati in pochi grandi complessi industriali, la cui politica dipendeva peraltro dall’industria del Nord, oppure in una miriade di piccole e piccolissime attività, più prossime all’artigianato tradizionale che all’attività produttiva moderna.
Su questo universo si abbatte il ciclone della guerra, che sottrae alla popolazione agricola attiva circa 1.500.000 lavoratori richiamati alle armi, e altri 500.000 inviati a lavorare in Germania o in altri paesi. Ciò provoca una diminuzione della disoccupazione, ma riversa sui pochi lavoratori rimasti il peso della produzione e dello sfruttamento. La scarsa produzione agricola, la disintegrazione del sistema dei trasporti, il peso del fisco, l’aumento dei prezzi, il ritardo nei pagamenti dei sussidi militari, provocano una situazione di estrema difficoltà per tutta la popolazione, anche per i ceti medi. Il sistema si sfalda e lo avvertono anche i rappresentanti del regime, come i prefetti delle province siciliane.
L’arrivo degli Alleati e la costituzione del Regno del Sud non determinano la rottura auspicata, anzi decidono e instaurano una continuità dello Stato di cui Churchill ed Eisenhower si faranno garanti in senso moderato, per restaurare una “normalità” che non prevede alcuna trasformazione, ma in politica economica “conferma la situazione di privilegio per gli agrari e per le rendite collegate all’incetta e distribuzione dei generi alimentari” (Gallerano).
Il livello estremo di miseria e di vera e propria fame (la popolazione ha a disposizione al massimo 200 grammi di pane e non più di 1.000 calorie al giorno, quando si riesce a garantirle) spinge le masse contadine a “esplosioni di collera popolare che portano il segno antico della jacquerie, ma con un’ampiezza e un’intensità inusitate. Il loro limite, fin troppo evidente, è che non si incontrano con un’iniziativa politica organizzata capace di disciplinare gli obiettivi e collegare le elementari esigenze di sopravvivenza a più generali fini di trasformazione dei rapporti di produzione agrari”. (Gallerano). Ed è questo il profilo che presentano le repubbliche contadine del Sud: da Calitri a Maschito, da Sanza a Piana degli Albanesi, da Comiso a Caulonia, le effimere repubbliche si sforzano di provvedere agli approvvigionamenti e lanciano i contadini verso un forte movimento di occupazione delle terre incolte. La loro azione viene repressa duramente dallo dello Stato – il sabaudo Regno del Sud – che non ammette ribellioni al suo ordinamento e alle sue istituzioni. L’antifascismo resta complessivamente un fatto di élite, spinto spesso da singoli antifascisti che si trovavano casualmente presenti sui territori meridionali scelti come località di confino. Le repubbliche contadine si ispirano a un’antica tradizione ugualitaria, ma sono prive dell’afflato democratico che anima le repubbliche partigiane del nord e che ispira loro la visione di una nazione diversa dal passato, radicalmente rinnovata nelle sue istituzioni politiche, economiche e culturali: come il nuovo del sistema educativo pensato nella repubblica dell’Ossola, o il regime fiscale elaborato in Carnia, i contratti collettivi di lavoro del Biellese, i rapporti internazionali del Cuneese: tutto ciò prefigura la nuova nazione italiana libera e democratica. Le repubbliche contadine sono invece moti di rivolta contingente, scaturiti da un’opposizione “viscerale” contro la violenza e i soprusi non solo del regime fascista e dell’occupante tedesco, ma contro gli invasori in generale, inclusi gli Alleati e lo stesso Stato italiano. Ma queste che appaiono come rivolte anarcoidi, non collegate fra loro e disorganizzate, determinano il risorgere delle lotte agricole in tutto il Meridione e il movimento di occupazione delle terre, che si sviluppa nel 1943-44 e continua nei primi anni della Repubblica italiana, fino al 1949, scontrandosi con una feroce repressione. “Scontri a fuoco tra insorti e forze dell’ordine, morti da entrambe le parti, rastrellamenti e arresti di massa che portano a processi di centinaia di contadini e braccianti e si concludono con pesanti condanne. Lo scenario è dunque complesso. Istanze antiche del mondo contadino si combinano con l’antifascismo, ma soprattutto emerge un conflitto sociale assai profondo al cui interno lievitano i livelli di violenza politica” (Chianese). Il massacro di contadini che festeggiavano il primo maggio a Portella delle Ginestre di cui fu esecutore materiale il bandito Giuliano, su mandato di agrari e mafia che volevano mantenere lo status quo per garantirsi i privilegi esistenti, fu solo il primo di una serie di eccidi; Andria, Melissa, Policastro, Montescaglioso, Partinico: in tutto il Meridione gli eccidi della polizia non si contano.
La fame di terra del mondo contadino acquista una forte carica eversiva, ma non riesce a mutare i rapporti di classe esistenti, non solo per via della repressione poliziesca, ma soprattutto per i propri limiti: non basta occupare le terre. Aveva scritto profeticamente Gramsci nel 1920: “Cosa ottiene un contadino povero invadendo una terra incolta o mal coltivata? Senza macchine, senza abitazione sul luogo di lavoro, senza credito per attendere il tempo del raccolto, senza istituzioni cooperative che acquistino il raccolto stesso (se arriva al raccolto senza prima essersi impiccato al più forte arbusto delle boscaglie o al meno tisico fico selvatico della terra incolta) e lo salvino dalle grinfie degli usurai, cosa può ottenere un contadino povero dall’invasione?”.
Dopo la guerra mutano le condizioni generali del paese, l’arretratezza del Meridione limita lo sviluppo del mercato interno e diventa una zavorra troppo gravosa per la borghesia industriale nazionale: l’emigrazione verso il triangolo industriale del Nord diventa l’unica soluzione che resta a migliaia di contadini poveri, che si trasformano in proletari nelle fabbriche, in lavoratori dell’edilizia, in piccoli commercianti.
Il Meridione resta nella sua miseria. Giorgio Bocca, riportando alcune cifre di un’inchiesta svolta dal Parlamento nel 1951, scrive: “Chi volesse dare una cifra riassuntiva della miseria siciliana potrebbe dire: 21.852 famiglie vivono in grotte o baracche. Se si volesse citare il paese della povertà assoluta si potrebbe dire Bonpensiere: ha 2.400 abitanti, l’ospedale più vicino è a 25 chilometri, il medico condotto a 6, niente farmacia, si macella la carne di manzo due volte l’anno, 25 chili di carne ovina la settimana bastano, dato che i braccianti non sono in grado di comperarla, lavorano dai 100 ai 120 giorno l’anno a salari sotto le 300 lire giornaliere. A Licata, che conta 40.000 abitanti, 10.000 persone vivono in case prive di servizi e 1000 stanno nelle grotte… I contadini di Agrigento spesso non possono cucinare per mancanza di combustibile e di grassi; il loro pasto freddo è composto da pane, cipolle, olive e sarde sotto sale… Il lavoro minorile è diffusissimo, almeno il trenta per cento dei ragazzi poveri elude l’obbligo scolastico e molti ragazzi lavorano come manovali nelle zolfatare, altri vengono impiegati per il trasporto di sacchi di 30 o 35 chili nelle aziende dei profumi o delle conserve a una paga di 200 o 300 lire al giorno. A Reggio Calabria le raccoglitrici di olive che per contratto dovrebbero ricevere 500 lire al giorno per 8 ore di lavoro, ne prendono la metà lavorando 12 o 14 ore; le raccoglitrici di gelsomino fanno il lavoro notturno per sole 100 lire”.
Il miracolo economico del Nord, determinato in parte anche dal lavoro a buon mercato fornito dalle popolazioni meridionali, permette a migliaia di contadini poveri e sconfitti sulle loro terre di trovare la dignità di un lavoro e la sicurezza di un salario.
Dopo queste premesse, possiamo passare a vedere la storia delle rivolte, delle lotte per la terra e delle repubbliche con cui i contadini del Sud entrarono nella storia affermando, con le parole di un loro poeta, “siamo entrati in giuoco anche noi/ con i panni e le scarpe e le facce che avevamo”.