Lanciano si trova in provincia di Chieti, in Abruzzo, dove le rivolte del Meridione si saldano con il partigianato organizzato della Brigata Maiella. Nella città, che ha 25.000 abitanti, si forma subito dopo l’8 settembre una organizzazione resistenziale formata da esponenti comunisti – il più noto è Mario Bellisario – esponenti di altri partiti politici, ufficiali dell’esercito fra cui il generale Mercadante e altri giovani ufficiali, ed ex prigionieri politici jugoslavi fatti fuggire con un’operazione gestita dall’OSS. La sera del 5 ottobre 1943 i partigiani capitanati da Trentino La Barba hanno uno scontro a fuoco con i tedeschi, alcuni dei quali vengono feriti. Il La Barba viene preso, interrogato e sottoposto a tortura, ma non parla, Il mattino dopo i tedeschi lo portano in città, lo legano a un albero, lo accecano e lo finiscono a colpi di pistola. La ferocia tedesca è la miccia che fa deflagrare la rivolta in tutta la città. Già nella notte altri partigiani, prevedendo la rappresaglia, avevano prelevato delle armi presso le caserme dei carabinieri e della Milizia fascista. Al mattino la battaglia vede un’ampia partecipazione popolare, sorretta da una buona organizzazione fornita dai militari. Nel pomeriggio i tedeschi ricevono rinforzi e agli insorti non è più possibile tenere le posizioni. La città viene incendiata e in gran parte distrutta, cadono 47 tedeschi e 23 lancianesi. I giovani sono costretti a fuggire e molti si arruolano nella Brigata Maiella che si andava costituendo proprio in quei giorni. Solo in dicembre arrivano gli Alleati: per tutto quel periodo i lancianesi resistono aggrappati alla loro terra, nei rifugi, nelle cantine, persino nelle fognature.
Roberto Battaglia, nella sua “Storia della Resistenza italiana” riporta un frammento di cronaca, tratto dalla relazione della Presidenza del Consiglio per il conferimento della medaglia d’oro alla città di Lanciano: “I genitori, pur sapendo i figli impegnati, non piangevano ma solo chiedevano dell’andamento dell’azione. Gli inermi si adoperavano come portaordini, per il trasporto delle munizioni e dei feriti, centuplicando i loro sforzi per emulare chi combatteva. Con eguale cura venivano raccolti i tedeschi feriti e portati all’ospedale… I nostri morti giacevano là dove avevano avuto la consegna di combattere. I genitori, i congiunti li ricercarono poi per dare ad essi sepoltura mutamente, senza pianto. La madre di Bianco Vincenzo, ferito a morte in combattimento e finito con la mitragliatrice dalla brutalità teutonica, che ebbe altri due figli impegnati nell’azione, volle raccogliere il corpo esanime del figlio e sulle sue braccia, pietosamente, lo riportò a casa. I vicini facevano ala e si inginocchiavano al suo passaggio. Un caduto, Sammaciccia Pierino, col proprio sangue lasciava sull’asfalto della piazza l’impronta del suo corpo. Per mesi, nonostante l’insistenza delle piogge e poi anche la neve, l’impronta rimase sempre viva a raffigurare il caduto, che sembrava dovesse colà risorgere”.
Commenta il Battaglia: “C’è il clima di una vecchia civiltà popolare, che risparmia i caduti nemici e venera i propri come santi, un tono di ‘sacra rappresentazione’ medievale specie nell’ultimo suggestivo accenno, in quel persistere miracoloso dell’impronta di un caduto malgrado le intemperie e il passar del tempo. Tanto più vivo ed evidente questo sentimento di pietà religiosa se si contrappone alla barbarie nazista”.