I contadini

Il mondo contadino negli anni della guerra comprende circa il 50% della popolazione italiana; non è un blocco unitario, ma include realtà economiche e sociali delle più varie. Il poverissimo montanaro friulano che scende al paese per vendere i mestoli che egli stesso intaglia nel legno è ben diverso dall’esperto produttore di vini pregiati dell’Astigiano, che a sua  volta è diverso dal casaro dei remoti pascoli del Cuneese o dal piccolo proprietario emiliano che vive nelle ricche cascine della pianura. Ma tutti sono stati coinvolti nella guerra, attraverso i figli o i giovani paesani dispersi sui più diversi fronti, dalla Russia alla Grecia, e quando compaiono i soldati sbandati o i prigionieri di guerra stranieri evasi dai campi di concentramento, i contadini forniscono istintivamente aiuto e assistenza. I nuovi bandi di leva della Repubblica sociale o il lavoro coatto per i tedeschi sono una nuova minaccia cui i giovani si sottraggono unendosi agli antifascisti provenienti dalle città; nelle bande che si formano i contadini riconoscono istintivamente un alleato contro un regime minaccioso e screditato ormai anche ai loro occhi, per la profonda crisi economica che ha investito l’agricoltura: i contadini sono obbligati a consegnare i loro prodotti all’ammasso fascista, che li paga a un prezzo irrisorio, mentre il prezzo dei prodotti necessari per le coltivazioni continua ad aumentare.

Le formazioni partigiane si sforzano di stringere con le popolazioni rurali dei rapporti di  collaborazione e di evitare motivi di attrito; i diversi comandi e poi il CLN emanano disposizioni molto precise e severe, e i partigiani che trasgrediscono vengono severamente puniti. Da questo rapporto emergono caratteristiche specifiche che il movimento resistenziale assume nelle diverse regioni italiane: per esempio in Emilia e Toscana la resistenza si lega a un lavoro di organizzazione di massa dei braccianti e dei mezzadri, mentre nell’Astigiano la repubblica del Monferrato deve occuparsi dei problemi relativi alla produzione vinicola.

Il rapporto fra Resistenza e mondo contadino non va peraltro mitizzato: non sempre e ovunque le comunità contadine accettarono la convivenza con i partigiani, la precaria esperienza delle zone libere, con lo spettro sempre incombente della fame e la minaccia delle rappresaglie nazifasciste che i partigiani non avevano la possibilità di arginare. E di fatto il mondo contadino durante l’occupazione tedesca pagò un prezzo altissimo, con lo sterminio di intere comunità come Boves, S. Anna di Stazzema, Marzabotto, Vinca. Ma come conclude Arrigo Boldrini nella “Enciclopedia della Resistenza”, da lui curata, “complessivamente, l’onere e la somma di sofferenze che per i contadini rappresentò la presenza partigiana non alterò il legame fra gli uni e gli altri: nelle alternative imposte dalla guerra, i primi scelsero di stare con i “ribelli” perché da quella parte sentivano che c’era una causa giusta, la speranza di un avvenire migliore, la volontà della pace e della fine di servitù intollerabili”.

Della fine delle vecchie servitù i contadini si erano potuti rendere conto nelle zone libere auto-governate. Infatti se – come in Carnia – le vacche venivano date ai contadini non in proprietà privata ma in cooperativa; se il lavoro di trebbiatura –come in Emilia – veniva compiuto tutti insieme, podere per podere, prestandosi la trebbiatrice; se – come in Ossola – si discuteva insieme sull’uso democratico dei pascoli, era un nuovo modo di organizzare il lavoro e la vita quotidiana che veniva adottato. E non sul piano teorico, non per predica ideologica del commissario politico, ma in concreto e nel quotidiano passava la buona novella della possibilità di un cambiamento radicale dello stato di cose presenti.