Nelle zone libere svolge un ruolo importante anche il clero, o almeno una parte di esso, i parroci di montagna che seguirono le inclinazioni dei loro fedeli e parteciparono a tutte le loro vicende, sia quelle politiche – come i sacerdoti Zoppetti e Cabalà, che parteciparono al governo della repubblica dell’Ossola come rappresentanti della Democrazia cristiana – sia quelle più tragiche, che li videro perire per mano nazifascista, come don Giuseppe Englaro, in Carnia, ucciso perché tentava di difendere una giovane donna dallo stupro.
In genere si può dire che nei paesi di montagna i partigiani trovarono nel parroco un aiuto articolato in mille forme: rifornimento di viveri e di materiale sanitario, assistenza ai feriti, informazioni, ricovero nelle chiese per ricercati, ex prigionieri di guerra, evasi dai campi di concentramento. La partecipazione attiva dei sacerdoti alla vita delle bande partigiane trova un riscontro preciso nell’elenco di caduti: 202 morti e una trentina di deportati. Molti affrontarono il plotone di esecuzione e le torture nazifasciste per aver aiutato i resistenti e protetto le popolazioni. Molti furono i parroci di campagna che vissero sorvegliati dai nazifascisti e subirono vessazioni di ogni tipo perché sospettati di essere vicini ai partigiani o – come scrisse in un rapporto un commissario prefettizio della Repubblica di Salò – “ispiratori di sovversione ribellistica”.
Il clero più alto mantenne invece un atteggiamento ambivalente, cercando di prendere le distanze dal regime della Repubblica di Salò, ma conservando normali relazioni con i nazifascisti; molti vescovi continuarono per tutta la durata della Resistenza a mettere sullo stesso piano le azioni dei nazifascisti e quelle dei partigiani, rifiutando entrambi in nome della carità cristiana e del rifiuto della violenza, ma dimostrando spesso di nutrire timore o addirittura odio nei confronti del movimento resistenziale troppo evidentemente legato a ideologie socialiste e comuniste.