Il paese di Calitri si trova in provincia di Avellino, in Irpinia, a circa 600 metri di altitudine, al confine con la Basilicata. Oggi conta 4.900 abitanti, mentre nel 1936 ne aveva 8.000.
Il 29 settembre 1943 la popolazione, venuta a conoscenza della strage di Rionero in Vulture, insorge. La scintilla scocca quando il podestà Salvatore Zampaglione, brandendo le insegne comunali, si mette in prima fila ad accogliere un battaglione americano di passaggio. La popolazione non sopporta questo sfacciato voltafaccia del podestà, che nel 1922 aveva reclutato alcuni squadristi per la marcia su Roma, poi, dopo l’8 settembre, si era messo a disposizione dei tedeschi. Nei vent’anni della dittatura, dietro lo scudo della camicia nera, aveva inflitto soprusi e maltrattamenti a quasi ogni abitante del paese. In base alle testimonianze raccolte sul posto da Talamo e De Marco negli anni settanta, a una donna che era andata a chiedere un po’ di farina per i figli aveva risposto “Adattatevi a mangiare i figli per pane”, mentre a un altro contadino che pure chiedeva farina consigliò di andare a raccogliere cicoria. I piccoli proprietari e i braccianti, vittime di soprusi secolari, sono in prima fila alla testa della rivolta.
Dopo che il battaglione americano si dilegua, i contadini vanno all’assalto del municipio. Il podestà e i gerarchi fascisti locali, giudicati non solo corresponsabili delle stragi compiute dai tedeschi, ma accusati soprattutto di affamare il popolo, vengono destituiti.
La rivolta assume subito carattere violento, ma solo contro i responsabili politici del ventennio: il podestà viene malmenato e ridotto in fin di vita, vengono assaliti i depositi del consorzio agrario dove si trova ammassato il grano. I contadini si dirigono poi verso la casa del responsabile dell’ammasso granario, Ricciardi, il quale si difende sparando e uccidendo un contadino. Nuovamente attaccato, il Ricciardi viene ucciso insieme con la figlia, purtroppo una ragazzina di 12 anni. Alla rivolta partecipano anche due antifascisti confinati nel paese, Walter (o Carlo) Zavatti e il comunista croato Antonio Lucew.
Nello stesso giorno i contadini si riuniscono nella casa dell’ECA con lo scopo preciso di darsi “nuove leggi”, e fissano i loro punti programmatici: in primo luogo, ristabilire l’ordine nel paese, per evitare atti di violenza privata; poi regolare la distribuzione delle derrate alimentari di prima necessità, fissandone i prezzi; infine programmare gli interventi per abolire le ingiustizie secolari, provvedendo in primo luogo all’abolizione del latifondo e alla distribuzione delle terre. Viene proclamata la repubblica autonoma di Calitri, detta “repubblica di Battocchio” dal nome del contadino che ne fu uno dei più vivaci organizzatori. Viene issata la bandiera della repubblica, che già era stata issata nell’Ottocento dopo il passaggio di Garibaldi.
Si iniziano subito i collegamenti con i paesi vicini, Bisaccia e Pescopagano, dove erano avvenute rivolte analoghe, e con Vallata e Lioni, per costituire organismi comuni di lotta. Si tratta solo di tentativi che non hanno alcun seguito: troppo breve il tempo per la piccola, tenace repubblica.
La violenza della rivolta e i fini che si prefigge mettono in allarme le autorità costituite, che in questo caso sono i carabinieri, nella persona del maresciallo De Feo; egli ottiene l’appoggio di una colonna alleata e il 1 ottobre interviene con mitragliatrici e un’auto corazzata, e trae in arresto 40 abitanti del paese, poi liberati. Ma la rivolta ha un seguito anche dopo la guerra: nel 1946 vengono di nuovo arrestate 56 persone, con varie accuse fra cui quella di strage. Il processo si trascina per vari anni e alla difesa dei rivoltosi provvede l’avvocato comunista Mario Palermo; si conclude nel 1949 con molti assolti, mentre dodici degli imputati sono condannati a pene dai tre agli otto anni; all’ex confinato Lucew vengono inflitti dieci anni di carcere, a Battocchio 14. Ne sconterà 7 e poi emigrerà in Germania.
Trent’anni dopo, nel 1975, Manlio Talamo, che si è recato sul posto per raccogliere le testimonianze, conclude amaramente: “Da allora a Calitri, nulla è cambiato: ancora oggi alle stesse famiglie appartengono i signorotti del paese, legati ai partiti di governo. Calitri non appare quasi per nulla mutata; la fame, la povertà, lo sfruttamento sono quelli di sempre… Le grandi proprietà hanno parzialmente ridotto le loro dimensioni solo perché i padroni si sono saputi, furbescamente, disfare per tempo (vendendole) delle terre più incolte e improduttive… Da allora vi sono stati duemila emigrati; sono quasi scomparsi i piccoli agricoltori, è rimasto solo qualche anziano impossibilitato a partire”.